HONORÉ DE BALZAC : Le illusioni perdute,Traduzione di Argia Micchettoni

 

I DUE POETI

UNA STAMPERIA DI PROVINCIA
All’epoca in cui comincia questa storia, la macchina di Stanhope e i rulli inchiostratori non erano ancora entrati nelle piccole stamperie di provincia. Ad Angoulême, malgrado la specialità locale che la mette in rapporto con l’industria tipografica parigina, ci si serviva sempre di torchi in legno, ai quali la lingua è debitrice dell’espressione «far gemere i torchi» che oggi non trova più applicazione. L’arte della stampa era arretrata e si impiegavano ancora i mazzi di cuoio caricati di inchiostro con i quali lo stampatore inchiostrava i caratteri. Il piano mobile destinato a ricevere la forma piena di lettere sulla quale si applica il foglio di carta era ancora in pietra e giustificava il nome di marmo. I voraci torchi meccanici hanno ormai fatto dimenticare a tal punto questo congegno, al quale dobbiamo, nonostante le sue imperfezioni, i bei libri degli Elzevier, dei Plantin, degli Aldo Manuzio e dei Didot, che non sarà inutile ricordare i vecchi attrezzi per i quali Gerolamo Nicola Séchard aveva un attaccamento superstizioso; essi infatti hanno una loro parte in questa grande piccola storia.
Questo Séchard era un ex torcoliere di quelli che nel loro gergo tipografico i compositori chiamano Orsi. Senza dubbio questo nomignolo è venuto loro dal continuo va e vieni che essi fanno, come gli orsi in gabbia, per passare dalle tavolette, sulle quali è disteso l’inchiostro, al torchio e dal torchio alle tavolette. A loro volta gli Orsi hanno soprannominato i compositori Scimmie, a causa della ininterrotta ginnastica che questi signori fanno per prendere i caratteri nei centocinquantadue cassettini in cui sono con tenuti. All’epoca infausta del 1793, Séchard, che aveva circa cinquant’anni era sposato. L’età e tale la sua condizione lo sottrassero alla grande coscrizione che portò quasi tutti gli operai sotto le armi. Il vecchio torcoliere restò solo nella stamperia il cui padrone, detto anche il Semplicione, era appena morto, lasciando una vedova senza figli. Lo stabilimento sembrò minacciato da una fine imminente: l’Orso solitario era incapace di trasformarsi in Scimmia perché, essendo torcoliere, non aveva imparato né a leggere né a scrivere. Senza tener conto di tali sue incapacità, un Rappresentante del Popolo, incaricato di diffondere i bei decreti della Convenzione, concesse al torcoliere il brevetto di maestro stampatore e requisì la tipografia. Dopo aver accettato questo pericoloso brevetto, il cittadino Séchard indennizzò la vedova del padrone consegnandole le economie della propria moglie, con le quali pagò il materiale della stamperia metà del suo valore. Ma questo era ancora niente. Bisognava stampare senza errori né ritardi i decreti repubblicani. In queste difficili circostanze Gerolamo Nicola Séchard ebbe la fortuna di incontrare un nobile marsigliese che non voleva emigrare per non perdere le proprie terre, né mostrarsi in giro per non perdere la testa, e che non aveva altro modo per vivere se non quello di procurarsi un lavoro qualunque. Il Signor conte di Maucombe indossò dunque l’umile veste di un proto di provincia: compose, lesse e corresse lui stesso i decreti che comminavano la pena di morte ai cittadini che nascondessero dei nobili; l’Orso divenuto Semplicione li stampò, li fece affiggere; e tutti e due rimasero sani e salvi. Nel 1795, passata la bufera del Terrore, Nicola Séchard fu costretto a cercarsi un altro merlo che potesse fare da compositore, correttore e proto. Un prete, divenuto poi vescovo sotto la Restaurazione e che allora aveva rifiutato di prestare giuramento, sostituì il conte di Maucombe fino al giorno in cui il Primo Console ristabilì la religione cattolica. Il conte e il vescovo si incontrarono più tardi sullo stesso banco della Camera dei Pari. Ma nel 1802 Gerolamo Nicola Séchard, se non sapeva leggere e scrivere meglio che nel 1793, aveva però saputo ricavare dalla stamperia guadagni sufficienti per permettersi un proto. Colui che era stato un operaio incurante dell’avvenire era diventato un padrone temibile per le sue Scimmie e i suoi Orsi. L’avarizia comincia dove finisce la povertà. Il giorno in cui lo stampatore intravide la possibilità di accumulare un patrimonio, l’interesse gli sviluppò una sorta di rozza intelligenza avida, sospettosa e sottile. In lui la pratica si infischiava della teoria. Egli sapeva ormai valutare a colpo d’occhio il prezzo di una pagina e di un foglio a seconda dei caratteri. Dimostrava agli ignari clienti che costava di più lavorare con i caratteri grossi che con quelli piccoli; se poi si trattava di caratteri piccoli, diceva che erano più difficili da maneggiare. Poiché la composizione era la branca della tipografia di cui non capiva niente, aveva tanta paura di sbagliare i conti che faceva sempre dei contratti leonini. Se i suoi compositori lavoravano a ore, non smetteva mai di tenerli d’occhio. Se sapeva che un cartaio si trovava in difficoltà, gli comprava tutta la carta a basso prezzo e l’immagazzinava. Così aveva finito per acquistare anche l’edificio in cui da tempo immemorabile era situata la stamperia. Ebbe tutte le fortune: rimase vedovo con un solo figlio; lo mise al liceo della città, non tanto per dargli una educazione quanto per prepararsi un successore; lo trattava severamente allo scopo di prolungare la durata della sua autorità paterna; nei giorni di festa, lo faceva lavorare alla cassa dicendogli che doveva imparare a guadagnarsi la vita per potere un giorno ricompensare il povero padre che si dissanguava per allevarlo. Quando il prete lo lasciò, Séchard scelse per proto, fra i suoi quattro compositori, quello che il futuro vescovo gli indicò come colui che aveva tanta onestà quanta intelligenza. In tal modo il brav’uomo fu in grado di aspettare il momento in cui suo figlio avrebbe potuto dirigere lo stabilimento che, in mani giovani ed abili, si sarebbe certamente ingrandito. Davide Séchard fece degli studi brillantissimi al liceo di Angoulême. Per quanto, da Orso qual era, senza cultura né educazione, di sprezzasse considerevolmente la scienza, papà Séchard mandò suo figlio a Parigi perché vi studiasse l’arte tipografica; ma gli raccomandò con tanto calore d’accumulare una bella somma in un paese che egli chiamava il paradiso dei lavoratori, dicendogli di non contare sulla borsa paterna, che non v’è dubbio egli vedesse in quel soggiorno nel paese della Sapienza un modo d’arrivare ai suoi fini. A Parigi, mentre imparava il mestiere, Davide completò la sua educazione. Il proto dei Didot divenne un dotto. Verso la fine del 1819 Davide Séchard lasciò Parigi senza essere costato un soldo a suo padre, che lo richiamava per affidare alle sue mani il timone dell’azienda. La stamperia di Nicola Séchard possedeva allora il solo foglio di avvisi giudiziari che esistesse nel dipartimento, e inoltre forniva la Prefettura e il Vescovato; si trattava di tre clienti che avrebbero dovuto procurare una grande fortuna a un giovanotto attivo.
Precisamente in quell’epoca, i fratelli Cointet, fabbricanti di carta, acquistarono il secondo brevetto di stampatore disponibile ad Angoulême, brevetto che il vecchio Séchard era riuscito fino ad allora a far rimanere completamente inutilizzato, grazie anche alle crisi militari che, sotto l’Impero, avevano limitato ogni iniziativa industriale; per questa ragione non l’aveva acquistato e la sua parsimonia fu una causa di rovina per la vecchia stamperia. Apprendendo la notizia, il vecchio Séchard pensò con sollievo che la lotta fra il suo stabilimento e i Cointet sarebbe stata sostenuta da suo figlio e non da lui. «Io avrei finito per soccombere,» si disse, «ma un giovanotto che ha fatto il tirocinio con i Didot se la caverà.» Il settuagenario non vedeva l’ora di poter cominciare a vivere a modo suo. Se aveva poche conoscenze in fatto di arte tipografica, in compenso passava per essere estremamente forte in quell’arte che gli operai hanno spiritosamente soprannominato «vinografica”; arte assai stimata dal divino autore di Pantagruel, ma la cui pratica, perseguitata dalle società cosiddette di temperanza, viene ogni giorno di più abbandonata. Gerolamo Nicola Séchard, coerente con il proprio nome, era dotato di una sete inestinguibile. Per parecchio tempo sua moglie aveva contenuto nei giusti limiti questa passione per l’uva pigiata, un gusto così connaturato agli Orsi che il signor di Chateaubriand l’ha osservato anche presso i veri orsi dell’America; ma i filosofi hanno rimarcato che le abitudini della gioventù ritornano con forza nella vecchiaia. Séchard confermava questa legge morale: più invecchiava, più gli piaceva bere. Questa passione imprimeva sulla sua fisionomia orsina dei segni che la rendevano originale; il naso aveva preso lo sviluppo e la forma di una A maiuscola in carattere di scatola, le guance venate somigliavano a certe foglie di vite piene di gibbosità violette, porporine e spesso variegate, faceva insomma l’effetto di un tartufo mostruoso avviluppato nei pampini autunnali. Nascosti sotto due grosse sopracciglia simili a cespugli carichi di neve, i piccoli, scaltri occhi grigi, in cui si leggeva un’avarizia che uccideva tutto in lui, perfino il sentimento paterno, conservavano la loro vivacità anche nell’ubriachezza. La testa, calva alla sommità, e coronata di capelli ingrigiti ma ancora ricci, faceva pensare ai frati dei Racconti di La Fontaine. Era basso e panciuto come tanti di quei vecchi che consumano più olio che lucignolo; perché gli eccessi, di qualunque genere siano, accentuano nel corpo le tendenze di natura. L’ubriachezza, come lo studio, rende più grasso l’uomo grasso e più secco l’uomo magro. Gerolamo Nicola Séchard portava da trent’anni il famoso tricorno municipale che, in alcune province, si vede ancora in testa al banditore del comune. Il panciotto e i pantaloni erano di velluto verdastro. Infine, aveva una vecchia redingote scura, calze di cotone variegate e scarpe con fibbie d’argento. Questo abbigliamento, che faceva ancora intravedere l’operaio nel borghese, si adattava così bene ai suoi vizi e alle sue abitudini, esprimeva così bene la sua vita, che il brav’uomo sembrava fosse stato creato già vestito; immaginarlo senza quegli abiti era come pensare a una cipolla senza il suo velo. Se il vecchio tipografo non avesse dato già da tempo la misura della sua cieca avidità, basterebbe la sua abdicazione a dipingerne il carattere. Malgrado l’esperienza che il figlio doveva aver accumulato alla grande scuola dei Didot, egli si proponeva di fare con lui il buon affare che da un pezzo rimuginava. Se il padre lo faceva buono, il figlio doveva farlo cattivo. Ma per il brav’uomo negli affari non esistevano né figli né padri. Anche se dapprima aveva visto in Davide il suo unico figlio, in seguito vide in lui solo un acquirente i cui interessi erano opposti ai suoi: lui voleva vendere caro, Davide doveva acquistare a buon mercato; suo figlio diventava dunque un nemico da battere. Questa trasformazione del sentimento in interesse personale, di solito lenta, tortuosa e ipocrita nelle persone che hanno ricevuto una buona educazione, fu rapida e immediata nel vecchio Orso, il quale dimostrò come l’arte vinografica aiutata dalla malizia avesse la meglio sull’arte tipografica. Quando il figlio arrivò, il brav’uomo gli manifestò la tenerezza interessata che i furbi riservano ai gonzi: si occupò di lui come un amante si sarebbe occupato della sua bella; gli porse il braccio, gli disse dove bisognava mettere i piedi per non infangarsi; gli aveva fatto scaldare il letto, accendere il fuoco, preparare la cena. L’indomani, dopo aver cercato di ubriacare il figlio durante un pranzo copioso, Gerolamo Nicola Séchard, un po’ più che alticcio, gettò lì un: «Parliamo d’affari?» che capitò così singolarmente fra due singhiozzi da indurre Davide a chiedergli di rimandare gli affari all’indomani. Il vecchio Orso sapeva sfruttare troppo bene la propria ubriachezza per abbandonare una battaglia preparata da tanto tempo. D’altra parte, dopo aver tirato la carretta per cinquant’anni, non voleva, disse, tirarla un’ora di più. L’indomani stesso suo figlio sarebbe stato lui il Semplicione.
A questo punto è forse necessario dire qualche parola sullo stabilimento. La stamperia, sita nel punto in cui la rue de Beaulieu sbocca sulla piazza du Murier, era stata impiantata in quell’edificio verso la fine del regno di Luigi XIV. Perciò da molto tempo i locali erano stati adattati alle esigenze di quella industria. Il piano terreno era costituito da una sala immensa rischiarata per mezzo di una vecchia vetrata dalla parte della strada e di un lucernario che dava su un cortile interno. Si poteva però arrivare all’ufficio del padrone anche passando per un corridoio. Ma in provincia l’attività di una tipografia è sempre oggetto di una curiosità così viva che i clienti preferivano entrare da una porta praticata nella vetrata che dava sulla strada, malgrado ci fossero da scendere alcuni gradini, in quanto il pavimento era al di sotto del piano stradale. I curiosi, stupiti, non badavano agli inconvenienti cui si esponevano passando attraverso i meandri angusti dello stabilimento. Se guardavano per aria ai fogli distesi, come amache, sulle corde attaccate sotto il soffitto, andavano a sbattere contro le file delle casse, o davano col capo nelle sbarre di ferro che sostenevano i torchi. Se seguivano gli agili movimenti di un compositore che, tenendo sott’occhio l’originale, pescava i caratteri nei centocinquantadue cassettini della sua cassa, rileggeva la riga nel compositoio e vi faceva poi scivolare sotto un’interlinea, urtavano in una risma di carta inumidita e pressata con delle pietre o sbattevano il fianco contro l’angolo di un banco; tutto ciò divertiva moltissimo le Scimmie e gli Orsi. Nessuno era mai arrivato senza incidenti fino alle due grandi gabbie in fondo all’antro, che formavano, dalla parte del cortile, due miserabili padiglioni, dove troneggiavano da una parte il proto e dall’altra il maestro stampatore. Nel cortile, i muri erano coperti da bei tralci di vite che, data la reputazione del padrone, costituivano una gustosa allusione. In fondo, addossata al nero muro divisorio, c’era una tettoia sgangherata dove si inumidiva e si preparava la carta. C’era anche lo scolo della cucina sul quale si lavavano, prima o dopo la tiratura, le forme o, per usare il linguaggio volgare, i pacchetti: ne usciva una mistura di inchiostro e di acque di cucina che faceva pensare ai contadini venuti in città nei giorni di mercato, che colà si lavasse la faccia il diavolo. Questa tettoia aveva da un lato la cucina e dall’altro la legnaia. Il primo piano della casa, al di sopra del quale c’erano solo due mansarde, constava di tre stanze. La prima, lunga quanto il corridoio, tolto lo spazio occupato dalla vecchia scala di legno, prendeva luce dalla strada per mezzo di una piccola finestra a crociera oblunga, e dal cortile per mezzo di un occhio di bue, e serviva al tempo stesso da anticamera e camera da pranzo. Imbiancata a calce, si faceva notare per la cinica semplicità dell’avarizia mercantile; il pavimento sudicio non era mai stato lavato; il mobilio era costituito da tre brutte sedie, da una tavola rotonda e da una credenza collocata fra due porte che davano nella camera da letto e nel salotto; finestre e porte erano nere di sporcizia; la stanza era quasi sempre ingombra di fogli bianchi o già stampati, e spesso il dessert, le bottiglie, i piatti della cena di Gerolamo Nicola Séchard erano posati sui pacchi. La camera da letto, la cui finestra con vetri a piombo prendeva luce dal cortile, era addobbata con quei vecchi arazzi che in provincia vengono esposti fuori delle case il giorno del Corpus Domini. C’erano un letto matrimoniale a colonne con cortine, gale e un copripiedi di saia rossa, due poltrone tarlate, due sedie di noce imbottite, un vecchio scrittoio e sul camino una pendola. Questa stanza, in cui si respirava una pace patriarcale e in cui dominavano le tinte scure, era stata arredata dal signor Rouzeau, predecessore e padrone di Gerolamo Nicola Séchard. Il salotto, ammodernato dalla defunta signora Séchard, era foderato da orribili pannelli di legno dipinti in un azzurro stridente; sui pannelli erano applicate carte che rappresentavano scene orientali in color bistro su fondo bianco; il mobilio era formato da sei sedie, ricoperte di bazzana azzurra, con lo schienale a forma di lira. Le due finestre, inquadrate da rozzi archi e dalle quali l’occhio abbracciava tutta la piazza du Murier, erano prive di tende; sul caminetto non c’erano né candelieri, né pendola, né specchio. La signora Séchard era morta nel bel mezzo dei suoi progetti di abbellimento e l’orso, che non vedeva l’utilità di fare delle migliorie che non rendevano nulla, aveva lasciato le cose come stavano. Fu qui che, pede titubante, Gerolamo Nicola Séchard condusse il figlio per mostrargli, sul tavolo rotondo, un inventario del materiale della stamperia compilato dal proto sotto la sua direzione.
«Leggi qui, figlio mio,» disse Gerolamo Nicola Séchard spostando lo sguardo da ubriaco dall’inventario al figlio e dal figlio all’inventario. «Vedrai che gioiello di stamperia ti do.»
«Tre torchi di legno mantenuti da sbarre di ferro, con piano in ghisa.»
«Un perfezionamento che ho fatto io,» disse il vecchio Séchard interrompendo il figlio.
«Con relativi utensili: tavolette per inchiostro, mazzi di cuoio e banchi, ecc., milleseicento franchi! Ma, padre mio,» disse Davide Séchard lasciando cadere l’inventario, «i tuoi torchi sono del ciarpame che non vale cento scudi, e che è buono solo per il fuoco.»
«Ciarpame?…» gridò il vecchio Séchard, «ciarpame?… Prendi l’inventario e scendiamo! Vedrai se la vostra ferraglia funziona come questi buoni vecchi congegni sperimentati. Dopo, non avrai più il coraggio di offendere degli onesti torchi che vanno come vetture di posta, e che andranno ancora per tutta la tua vita senza aver bisogno della più piccola riparazione. Ciarpame! Sì, è ciarpame che ti darà il sale per cuocere le uova! ciarpame che tuo padre ha fatto funzionare per vent’anni, che gli è servito per fare di te quello che sei.»
Il padre si slanciò giù per la scala di legno tutta nodi, consumata, tremolante, senza ruzzolare; apri la porta del corridoio che dava nella stamperia, si precipitò sul primo dei suoi torchi oliati e puliti per l’occasione e mostrò le forti cosce di legno di quercia lustrate dall’apprendista.
«Non è un amore di torchio?» disse.
C’era su una partecipazione di matrimonio. Il vecchio Orso abbassò la fraschetta sul timpano, e il timpano sul marmo che fece scivolare sotto il torchio; tirò la mazza, srotolò la cinghia per far tornare indietro il marmo, risollevò timpano e fraschetta con la destrezza di un giovane Orso. Il torchio mandò un cinguettio così soave che lo si sarebbe scambiato per quello d’un uccello venuto a sbattere contro un vetro e poi volato via.
«C’è forse un solo torchio inglese che funzioni così?» disse il padre al figlio sbalordito.
Il vecchio Séchard corse poi al secondo, al terzo torchio, su ognuno dei quali fece la stessa manovra con uguale abilità. Sull’ultimo, i suoi occhi offuscati dal vino scoprirono un punto che non era stato lucidato dall’apprendista; l’ubriaco, dopo aver bestemmiato abbondantemente, si mise a fregarlo con una falda della redingote, come un sensale di cavalli che lustri il pelo di una bestia da vendere.
«Con questi tre torchi, senza bisogno di proto, puoi guadagnare i tuoi bravi novemila franchi l’anno, Davide. Quale tuo futuro socio non ti permetto di sostituirli con quei maledetti torchi metallici che consumano i caratteri. Avete gridato al miracolo a Parigi per l’invenzione di quel dannato inglese, un nemico della Francia, che ha voluto fare la fortuna dei fonditori. Ah! avete voluto delle Stanhope! Grazie tante per le vostre Stanhope che costano duemilacinquecento franchi l’una, circa due volte più di quanto valgono i miei tre gioielli messi insieme, e che sfiancano il carattere perché non hanno elasticità. Io non sono istruito come te, ma ricorda bene questo: la vita della Stanhope è la morte del carattere. Questi tre torchi ti renderanno buoni servizi, il lavoro verrà tirato a dovere, e i clienti, qui ad Angoulême, non ti chiederanno di più. Sia che tu stampi col ferro o col legno, con l’oro o con l’argento, non pagheranno un quattrino di più.»
«Item,» lesse Davide, «cinquemila libbre di caratteri, provenienti dalla fonderia del signor Vaflard…» A questo nome, l’allievo dei Didot non potè trattenersi dal sorridere.
«Ridi, ridi! Dopo dodici anni, i caratteri sono ancora nuovi. Ecco quello che io chiamo un fonditore! Il signor Vaflard è un uomo onesto che fornisce materiale duro; e, per me, il miglior fonditore è quello dal quale si va più raramente.»
«Stimati diecimila franchi,» riprese a leggere Davide. «Diecimila franchi, padre mio! ma significa quaranta soldi la libbra, e i Didot vendono il loro Cicero nuovo a soli trentasei soldi la libbra. Le tue capocchie di chiodi valgono appena il prezzo del metallo, dieci soldi la libbra.»
«Tu chiami capocchie di chiodi la Bastarda, l’Inglese, la Tonda del signor Gillé, già stampatore dell’Imperatore: sono caratteri che valgono sei franchi la libbra, dei capolavori d’incisione acquistati cinque anni fa e molti dei quali sembrano fusi ieri, guarda!» Il vecchio Séchard afferrò alcuni cartocci pieni di assortimenti che non erano mai stati usati e glieli mostrò.
«Io non sono un sapientone, non so né leggere né scrivere, ma ne so abbastanza da capire che i caratteri di scrittura della casa Gillé sono stati i precursori degli inglesi dei tuoi signori Didot. Ecco una tonda,» disse indicando una cassa e prendendone una M, una tonda cicero nuova di zecca.
Davide si rese conto che non c’era verso di discutere con suo padre. Bisognava accettare tutto o rifiutare tutto, scegliere fra il no e il sì. Il vecchio Orso aveva incluso nell’inventario perfino le corde dello stenditoio. Il più piccolo telaio da torchio, le assi, le ciotole, la pietra e le spazzole per lavare, a tutto aveva dato un prezzo con la pignoleria dell’avaro. Davide si chiedeva se l’affare fosse fattibile. Nel vedere il figlio muto davanti a quella cifra, il vecchio Séchard si preoccupò: preferiva una discussione violenta ad una accettazione silenziosa. In questo genere di negozi, la discussione denota un acquirente capace di difendere i propri interessi. «Chi accetta tutto,» diceva il vecchio Séchard, «non paga niente.» Mentre spiava i pensieri del figlio, continuò la rassegna della malridotta utensileria necessaria al funzionamento di una stamperia di provincia; condusse poi Davide a una calandra e a una taglierina destinata ai lavori per la clientela privata, e gliene vantò l’utilità e la robustezza.
«Gli arnesi vecchi sono sempre i migliori,» disse. «In tipografia dovrebbero essere pagati più cari dei nuovi, come usano i battiloro.»
Orribili vignette raffiguranti imenei, amorini, morti che sollevavano pietre tombali disegnando delle V o delle M, enormi maschere per manifesti teatrali, divennero, attraverso l’eloquenza avvinazzata di Gerolamo Nicola, cose d’inestimabile valore. Disse al figlio che i provinciali erano attaccati alle loro abitudini, che sarebbe stato inutile cercare di dar loro cose più belle. Lui, Gerolamo Nicola Séchard, aveva tentato di vendere degli almanacchi migliori del Double Liégeois stampato su carta da zucchero! ebbene! il Double Liégeois era stato preferito ai più begli almanacchi. Davide avrebbe riconosciuto presto l’importanza di quelle anticaglie, vendendole più care delle novità più costose.
«Ah, ah! ragazzo mio, la provincia è la provincia, e Parigi è Parigi. Se uno dell’Houmeau viene a farti fare la sua partecipazione di matrimonio e tu gliela stampi senza un amorino con delle ghirlande, penserà di non essersi sposato, e te la riporterà se ci vede su una semplice M, come si usa dai tuoi signori Didot, che sono la gloria della tipografia, ma le cui invenzioni, in provincia, non saranno adottate prima che passi un secolo. Così è.»
Gli individui generosi sono cattivi commercianti. Davide era una di quelle creature pudiche e tenere che temono le discussioni, e che cedono quando l’avversario li tocca un po’ troppo nel punto debole. I suoi nobili sentimenti e l’imperio che il vecchio ubriacone aveva conservato su di lui lo rendevano ancor più inadatto a sostenere una discussione d’interessi col padre; soprattutto in quanto lo credeva animato dalle migliori intenzioni; infatti, egli attribuiva la sua avidità all’attaccamento che il torcoliere aveva per i suoi arnesi. Tuttavia, dato che Gerolamo Nicola Séchard aveva rilevato ogni cosa dalla vedova Rouzeau per diecimila franchi in assegnati, e che allo stato attuale delle cose trentamila franchi erano un prezzo esorbitante, il figlio esclamò:
«Padre mio, voi mi prendete per il collo!»
«Io, che ti ho dato la vita?…» disse il vecchio ubriacone alzando la mano verso lo stenditoio. «Ma insomma, Davide, quanto valuti tu il brevetto? Sai quanto vale il Foglio di Avvisi giudiziari a dieci soldi la riga? È una privativa che, da sola, ha reso cinquecento franchi il mese scorso. Ragazzo mio, apri i libri, guarda cosa fruttano i manifesti e i registri della Prefettura, e il lavoro con il Municipio e col Vescovato! Tu sei uno scioperato che non vuol fare la sua fortuna. Tu mercanteggi sul cavallo che ti porterà in una bella proprietà come quella di Marsac.»
All’inventario era allegato un contratto di società fra padre e figlio. Il buon padre affittava alla società la casa per una somma di milleduecento franchi, sebbene l’avesse acquistata per sole seimila lire, e si riservava l’uso di una delle due mansarde. Fino a che Davide Séchard non avesse rimborsato i trentamila franchi, gli utili sarebbero stati divisi a metà; il giorno in cui avesse rimborsato la somma al padre, sarebbe divenuto il solo e unico proprietario della stamperia. Davide valutò il brevetto, la clientela e il Foglio di Avvisi, senza tener conto dell’attrezzatura; pensò di poter pagare la cifra e accettò le condizioni. Abituato alle furberie dei contadini, e non sapendo niente dei calcoli in grande dei parigini, il padre rimase sbalordito da una conclusione così rapida.
«Mio figlio si è forse arricchito?» si chiese, «o sta pensando di non pagarmi?» Con questo dubbio in mente, lo interrogò per sapere se avesse riportato da Parigi del denaro; ché in tal caso se lo sarebbe fatto dare in acconto. La curiosità del padre risvegliò la diffidenza del figlio. Davide restò abbottonato fino al mento. L’indomani, il vecchio Séchard fece trasportare dall’apprendista nella stanza al secondo piano i mobili, che contava di mandare nella casa di campagna con le carrette che tornavano a vuoto. Consegnò al figlio le camere del primo piano, completamente vuote, e la stamperia senza dargli, pero, un centesimo per pagare gli operai. Quando Davide pregò il padre, nella sua qualità di socio, di contribuire alle spese necessarie per l’avviamento in comune, il vecchio torcoliere cadde dalle nuvole. Non si era impegnato, disse, a dare del denaro consegnando la stamperia; la sua parte l’aveva già data. Incalzato dalla logica del figlio, rispose che, quando aveva comperato la stamperia dalla vedova Rouzeau, si era cavato d’impaccio senza un soldo. Se lui, povero operaio ignorante, era riuscito, un allievo di Didot avrebbe fatto ancor meglio. D’altra parte Davide aveva guadagnato del denaro che proveniva dall’educazione pagata col sudore della fronte del suo vecchio padre: poteva pure impiegarlo ora, quel denaro.
«Che ne hai fatto della paga?» gli disse tornando alla carica per chiarire il problema che il silenzio del figlio aveva lasciato insoluto il giorno prima.
«Ma non ho dovuto vivere, non ho dovuto comperare dei libri?» rispose Davide indignato.
«Ah, tu compravi dei libri? Farai dei pessimi affari. Quelli che comprano libri non sono troppo adatti a Stamparli,» rispose l’Orso.
Davide provò la più orribile delle umiliazioni, quella causata dalla bassezza di un padre; dovette subire il diluvio di ragioni meschine, lagrimose, spregevoli, sordide, delle quali il vecchio avaro si servì per giustificare il suo rifiuto. Si tenne in cuore il suo dolore vedendosi solo e senza appoggio, scoprendo uno speculatore nel padre che tuttavia, per pura curiosità, volle conoscere a fondo. Gli fece osservare che non gli aveva mai chiesto conto della dote della madre. Se questa dote non poteva bastare a pagare il prezzo della stamperia, doveva almeno servire all’avviamento in comune.
«La dote di tua madre,» disse il vecchio Séchard, «era la sua intelligenza e la sua bellezza!»
A questa risposta, Davide capì suo padre fino in fondo, comprese che, per ottenere soddisfazione, avrebbe dovuto intentargli un processo interminabile, costoso e disonorevole. Quel nobile cuore accettò il fardello che avrebbe pesato sulle sue spalle; sapeva infatti quanto gli sarebbe costato far fronte agli impegni assunti verso il padre.
«Lavorerò,» si disse. «Dopo tutto, se passerò dei momenti brutti, anche il brav’uomo li ha passati. Eppoi, non lavorerò per me stesso?»
«Ti lascio un tesoro,» disse il padre preoccupato per il silenzio del figlio.
Davide chiese quale fosse il tesoro.
«Marion,» disse il padre.
Marion era una contadinotta indispensabile all’andamento della stamperia; inumidiva la carta e la tagliava, faceva le commissioni e da mangiare, lavava la biancheria, scaricava le risme di carta, andava a fare le riscossioni e puliva i tamponi. Se Marion avesse saputo leggere, il vecchio Séchard l’avrebbe messa a comporre.
Il padre partì a piedi per la campagna. Benché fosse felicissimo della vendita, camuffata sotto il nome di società, era inquieto circa il pagamento. Dopo le angosce della vendita, vengono sempre quelle della riscossione. Tutte le passioni sono essenzialmente gesuitiche. Quell’uomo, che considerava inutile l’istruzione, si sforzava di credere all’influenza dell’istruzione. Ipotecava i suoi trentamila franchi facendo affidamento sul senso dell’onore che l’educazione doveva aver sviluppato in suo figlio. Da giovanotto ben educato, Davide avrebbe sudato sangue e acqua per fare onore ai suoi impegni, la sua istruzione gli avrebbe fatto trovare delle risorse, si era mostrato pieno di bei sentimenti, avrebbe pagato! Molti padri, che agiscono così, credono di avere agito paternamente, e il vecchio Séchard aveva finito per convincersene quando giunse nella sua vigna di Marsac, un paesino a quattro leghe da Angoulême. Questo podere, sul quale il proprietario precedente aveva costruito una bella casa, si era ingrandito di anno in anno dal l809, epoca in cui il vecchio Orso l’aveva acquistato. Qui egli dedicò a un torchio le cure che fino ad allora aveva dedicato a un altro torchio, e, come diceva lui, era da troppo tempo amico delle vigne per non conoscerle bene.
Durante il primo anno, dopo il suo ritiro in campagna, papà Séchard non fece che aggirarsi pensieroso fra i suoi filari: era sempre nel vigneto, come prima era stato sempre nello stabilimento. Quei trentamila franchi insperati lo inebriavano ancor più del sugo settembrino, li palpava idealmente nelle tasche. Meno il credito era lecito, più desiderava incassarlo. Così spesso correva da Marsac a Angoulême, spinto dalla sua apprensione. Saliva le rampe della rupe sulla quale sorge la città, entrava nello stabilimento per vedere se il figlio se la cavava. I torchi erano al loro posto. L’unico apprendista, con in testa un berretto di carta, puliva i tamponi. Il vecchio Orso sentiva stridere un torchio su qualche partecipazione, riconosceva i suoi vecchi caratteri, scorgeva il figlio e il proto intenti, ognuno nella propria gabbia, a leggere un libro che l’Orso credeva fossero bozze. Dopo aver pranzato con Davide, tornava nel podere di Marsac ruminando sui suoi timori. L’avarizia, come l’amore, ha il dono di una seconda vista per quel che riguarda i casi a venire, li fiuta, li sollecita. Lontano dallo stabilimento, dove la vista degli attrezzi lo affascinava riportandolo ai giorni in cui accumulava denaro, il vignaiolo sentiva che in suo figlio c’erano degli inquietanti sintomi d’inerzia. Il nome dei Fratelli Gointet lo spaventava, lo vedeva dominare quello di Séchard e figlio. In una parola, il vecchio sentiva aria di guai. Questo presentimento era esatto: i guai sovrastavano la casa Séchard. Ma gli avari hanno un dio. Per un concorso di circostanze impreviste, questo dio avrebbe fatto affluire nella borsa dell’ubriacone il prezzo della sua vendita da usuraio. Ed ecco perché la stamperia Séchard andava in malora malgrado tutte le premesse di prosperità.
Indifferente alla reazione religiosa che la Restaurazione andava producendo nella politica del governo, ma incurante anche del Liberalismo, Davide conservava una pregiudizievole neutralità politica e religiosa. Erano tempi in cui i commercianti di provincia dovevano professare un’opinione se volevano avere clienti, in quanto bisognava scegliere fra il campo liberale e quello realista. L’amore che si era impadronito del suo cuore, le preoccupazioni scientifiche e il buon carattere impedirono a Davide di nutrire quella sete di guadagno che fa il vero commerciante, e che lo avrebbe indotto a riflettere sulle differenze che esistono fra l’industria di provincia e quella parigina. Le sfumature, così nette nei Dipartimenti, scompaiono nel grande crogiolo di Parigi. I fratelli Cointet si conformarono alle idee monarchiche, osservarono ostentatamente le astinenze, frequentarono la cattedrale, coltivarono i preti e ristamparono i primi libri religiosi di cui si cominciò a sentire la necessità. I Cointet si introdussero, in tal modo, in questo campo lucroso e calunniarono Davide Séchard accusandolo di liberalismo e di ateismo. Come è possibile, dicevano, servirsi da un uomo che ha per padre un rivoluzionario, un ubriacone, un bonapartista, un vecchio avaro che prima o poi avrebbe lasciato dei mucchi d’oro? Loro erano poveri, avevano una famiglia numerosa, mentre Davide era scapolo e sarebbe diventato straordinariamente ricco; perciò se la prendeva comoda, ecc. Influenzati da queste accuse mosse a Davide, la Prefettura e il Vescovato concessero infine la privativa delle loro forniture ai fratelli Cointet. In breve questi avidi concorrenti, imbaldanziti dall’indifferenza del rivale, crearono un secondo foglio di avvisi. La vecchia stamperia fu ridotta a lavorare solo per la clientela privata, e i proventi del suo foglio di avvisi diminuirono della metà. Arricchita dai considerevoli guadagni realizzati con i libri di chiesa e di preghiere, la casa Cointet propose di lì a poco ai Séchard di acquistare il loro foglio di avvisi per non dividere con i concorrenti gli annunci del dipartimento e gli avvisi giudiziari. Non appena Davide ebbe trasmesso questa notizia al padre, il vecchio vignaiolo, già spaventato dai progressi della casa Cointet, calò da Marsac sulla piazza du Murier con la rapidità di un corvo che ha fiutato i cadaveri su un campo di battaglia.
«Lascia che me li manovri io i Cointet, non t’immischiare in questa faccenda,» disse al figlio.
Il vecchio, che aveva subito capito l’interesse dei Cointet, li sbigottì con la sagacia della sua esposizione. Suo figlio commetteva una sciocchezza che lui avrebbe impedito, disse. «A che cosa si ridurrà la nostra clientela se egli cede il nostro foglio? Gli avvocati, i notai, tutti i negozianti dell’Houmeau sono liberali; i Cointet, volendo nuocere ai Séchard con l’accusarli di Liberalismo, hanno offerto loro un’ancora di salvezza, gli annunci dei Liberali resteranno ai Séchard! Vendere il foglio?… sì ma insieme con il materiale e il brevetto.» Chiese allora ai Cointet sessantamila franchi per la stamperia, perché il figlio non fosse rovinato: lui amava suo figlio, difendeva suo figlio. Il vignaiolo si servì del figlio come i contadini si servono delle mogli: suo figlio acconsentiva, suo figlio non acconsentiva, a seconda delle condizioni che strappava a una a una ai Cointet, e così li indusse, non senza sforzo, a sborsare una somma di ventiduemila franchi per il Giornale della Charente. Ma Davide dovette impegnarsi a non stampare mai giornali di sorta, pena la corresponsione di trentamila franchi per risarcimento danni. Quella vendita era il suicidio della stamperia Séchard; ma il vignaiolo non se ne preoccupava troppo. Al furto segue sempre l’omicidio. Il brav’uomo contava di incamerare quella somma in pagamento della tipografia; e, per poterla avere in mano, avrebbe dato volentieri anche Davide per soprammercato, tanto più in quanto quel figlio importuno aveva diritto alla metà di questo tesoro inaspettato. In compenso, il generoso padre rinunciò a ogni pretesa sulla stamperia, mantenendo però il canone d’affitto di milleduecento franchi.
Dopo la vendita del giornale ai Cointet, il vecchio venne raramente in città, adducendo la scusa dell’età avanzata; ma la vera ragione era lo scarso interesse ch’egli aveva per una stamperia che non gli apparteneva più. Tuttavia non poté ripudiare completamente l’antico affetto che lo legava ai suoi attrezzi. Quando gli affari lo spingevano ad Angoulême, sarebbe stato difficile stabilire che cosa lo attirasse di più nella casa, se i torchi di legno o il figlio, al quale si limitava a chiedere pro forma il pagamento delle pigioni. Il suo antico proto, passato ai Cointet, sapeva che pensare di quella generosità paterna; egli diceva che quella vecchia volpe si riservava così il diritto di ingerirsi negli affari del figlio, diventandone creditore privilegiato a causa dell’accumularsi delle pigioni arretrate.
L’incuria di Davide Séchard aveva delle cause che illustrano il carattere di questo giovane. Alcuni giorni dopo essersi installato nella stamperia paterna, egli aveva incontrato un suo compagno di collegio, a quell’epoca ridotto alla più squallida miseria. L’amico di Davide Séchard era un giovane, allora circa ventunenne, di nome Luciano Chardon, figlio di un ex ufficiale medico delle armate repubblicane, esonerato dal servizio per ferite riportate. L’inclinazione aveva fatto del signor Chardon padre un chimico, e il caso l’aveva fatto diventare farmacista ad Angoulême. La morte lo colse mentre si accingeva a sfruttare una lucrosa scoperta, alla quale aveva dedicato parecchi anni di studi scientifici. Egli voleva guarire ogni genere di gotta. La gotta è la malattia dei ricchi, e i ricchi pagano cara la salute quando vien loro a mancare. Perciò il farmacista aveva scelto questo problema da risolvere fra tutti quelli che si erano offerti alle sue meditazioni. Dovendo scegliere fra la scienza e l’empirismo, il defunto Chardon aveva capito che solo la scienza poteva assicurargli la fortuna: aveva quindi studiato le cause della malattia, e aveva basato il suo rimedio su un certo regime che adattava ad ogni singolo individuo. Morì durante un soggiorno a Parigi, dove era andato a sollecitare l’approvazione dell’Accademia delle scienze, perdendo così il frutto del suo lavoro. In previsione delle future ricchezze, il farmacista non aveva trascurato nulla per l’educazione del figlio e della figlia, di modo che il mantenimento della famiglia divorava tutti i proventi della farmacia. Così, lasciò i figli non soltanto nella miseria, ma, per loro disgrazia, allevati nella speranza di un avvenire brillante che si estinse con lui. L’illustre Desplein, che gli prestò le cure del caso, lo vide morire in preda a convulsioni di rabbia. L’ambizione di Chardon ebbe origine dall’amore violento che l’ex chirurgo nutriva per la moglie, ultima rampolla della famiglia de Rubempré, ch’egli aveva miracolosamente salvata dal patibolo nel 1793. Sebbene la fanciulla non avesse accettato la menzogna, egli aveva guadagnato tempo dicendo che era incinta. Dopo essersi in qualche modo creato il diritto di sposarla, la sposò malgrado la povertà di entrambi. I figli, come tutti i figli dell’amore, ebbero come unica eredità la meravigliosa bellezza della madre, dono tanto spesso fatale quando è accompagnato dalla miseria. Queste speranze, questi travagli, queste disperazioni, intensamente vissuti, alterarono profondamente la bellezza della signora Chardon, così come il lento avvilimento dell’indigenza modificò le sue abitudini; ma il suo coraggio e quello dei figli furono all’altezza della sfortuna. La povera vedova vendette la farmacia, situata nella Grand’rue dell’Houmeau, il principale sobborgo di Angoulême. Il ricavato della vendita le permise di costituirsi una rendita di trecento franchi, insufficiente per vivere; ma lei e la figlia accettarono la situazione senza arrossire e si dedicarono a lavori mercenari. La madre assisteva le partorienti, e grazie alle sue buone maniere era preferita a chiunque altra nelle case ricche, dove viveva senza costare nulla ai figli, guadagnando anzi venti soldi al giorno. Per evitare al figlio il dispiacere di vederla in una condizione così umiliante, aveva assunto il nome di signora Carlotta. Le persone che avevano bisogno di lei si rivolgevano al signor Postel, successore del signor Chardon. La sorella di Luciano lavorava presso una bravissima donna, stimata all’Houmeau, la signora Prieur, stiratrice di fino, sua vicina, e guadagnava circa quindici soldi al giorno. Dirigeva le operaie e godeva, nel laboratorio, di una specie di supremazia che la distingueva un po’ dalle altre lavoranti. I modesti frutti del loro lavoro, uniti ai trecento franchi di rendita della signora Chardon, facevano una cifra di circa ottocento franchi l’anno, con i quali queste tre persone dovevano vivere, vestirsi e pagare l’affitto. Facendo rigide economie, quella somma bastava appena, assorbita com’era, quasi interamente, da Luciano. La signora Chardon e sua figlia Eva credevano in Luciano come la moglie di Maometto credeva nel marito; la loro dedizione al suo avvenire era illimitata. Quella povera famiglia abitava all’Houmeau, in un appartamento che il successore del signor Chardon aveva dato in affitto per una somma modicissima, e che era situato in fondo a un cortile interno, sopra il laboratorio. Luciano occupava una stanzetta nella mansarda. Stimolato da un padre che, appassionato per le scienze naturali, l’aveva spinto fin dai primi anni su quella via, Luciano fu uno degli allievi più brillanti del collegio di Angoulême, dove frequentava la terza quando Séchard vi completava gli studi.
Allorché il caso fece incontrare di nuovo i due compagni di collegio, Luciano, stanco di bere nel rozzo calice della miseria, stava per prendere una di quelle decisioni estreme che si prendono a vent’anni. I quaranta franchi al mese che Davide diede generosamente a Luciano offrendosi di insegnargli il mestiere di proto, sebbene di un proto non avesse bisogno, salvarono Luciano dalla disperazione. La somiglianza dei loro destini e la differenza dei loro caratteri rafforzarono presto i legami di quella riannodata amicizia di scuola. Entrambi pieni di doti e d’ingegno, possedevano quella superiorità intellettuale che consente all’uomo di raggiungere senza sforzo qualsiasi cima, e invece si vedevano relegati nel fondo della società. Questa ingiustizia della sorte fu un legame potente. Inoltre, tutti e due erano arrivati alla poesia per strade diverse. Benché destinato alle più alte speculazioni delle scienze naturali, Luciano si sentiva portato verso la gloria letteraria; mentre Davide, predisposto alla poesia dalla sua intelligenza riflessiva, aveva un gusto spiccato per le scienze esatte. Questo intrecciarsi di ruoli generò una specie di fraternità spirituale. Luciano non tardò a comunicare a Davide le idee, ereditate dal padre, sull’applicazione della scienza all’industria, e Davide indicò a Luciano le nuove strade che avrebbe dovuto percorrere nel campo delle lettere per farsi un nome e una fortuna. L’amicizia di questi due giovani divenne in pochi giorni una di quelle passioni che nascono solo sul finire dell’adolescenza. Davide conobbe presto la bella Eva e se ne innamorò, come s’innamorano le anime malinconiche e contemplative. L’Et nunc et semper et in saecula saeculorum della liturgia è il motto di questi sublimi poeti sconosciuti, le cui opere consistono in magnifiche epopee sbocciate e concluse tra due cuori! Quando l’innamorato scoprì le segrete speranze che la madre e la sorella di Luciano riponevano in quella bella fronte di poeta, quando conobbe la loro cieca dedizione, sentì la dolcezza di avvicinarsi all’amata dividendo con lei sacrifici e speranze. Luciano fu dunque per Davide un fratello adottivo. Come gli Ultra che volevano essere più realisti del Re, Davide spinse all’eccesso la fede che madre e sorella avevano nel talento di Luciano, lo viziò come una madre vizia il proprio bambino. Durante una di quelle conversazioni in cui, assillati dalla mancanza di denaro che legava loro le mani, pensavano, come tutti i giovani, al modo in cui fare fortuna rapidamente, scrollando tutti gli alberi già spogliati da coloro che li avevano prevenuti senza ottenerne frutti, Luciano ricordò due idee enunciate da suo padre. Il signor Chardon aveva accennato alla possibilità di ridurre alla metà il prezzo dello zucchero mediante l’impiego di un nuovo agente chimico, e di ridurre in egual misura il prezzo della carta facendo venire dall’America certe materie vegetali, simili a quelle di cui si servono i cinesi, e che venivano a costare poco. Davide, che conosceva l’importanza di questo problema già discusso dai Didot, s’impadronì di questa idea intravedendovi una fortuna, e considerò Luciano come un benefattore nei confronti del quale non avrebbe mai potuto disobbligarsi.
È facile intuire come i pensieri dominanti e la vita interiore dei due amici li rendessero inadatti a gestire una stamperia. Lungi dal fruttare millecinquecento-duemila franchi, come quella dei fratelli Cointet, stampatori-librai del Vescovato, proprietari del Giornale della Charente, che era ormai l’unico giornale del dipartimento, la stamperia di Séchard figlio rendeva appena trecento franchi al mese, sui quali gravavano lo stipendio del proto, il salario di Marion, le imposte, la pigione; a Davide restavano un centinaio di franchi al mese. Degli uomini attivi e industriosi avrebbero rinnovato i caratteri, comperato torchi metallici, si sarebbero procurati dagli editori parigini delle opere da stampare a basso prezzo: ma padrone e proto, assorbiti dai travagli dell’intelletto, si contentavano di eseguire le ordinazioni dei loro ultimi clienti. I fratelli Cointet, che avevano finalmente capito il carattere e il comportamento di Davide, non lo calunniavano più; anzi, una saggia politica consigliava loro di lasciar vivacchiare la stamperia e di mantenerla in una onesta mediocrità, perché non cadesse in mano a qualche temibile antagonista: le passavano essi stessi i lavori della clientela privata. Così, senza saperlo, Davide Séchard esisteva, dal punto di vista commerciale, solo grazie a un abile calcolo dei suoi concorrenti. Felici di quella che essi chiamavano la sua mania, i Cointet si comportavano con lui, in apparenza, rettamente e lealmente; in realtà, agivano come l’amministrazione delle Messaggerie quando simula una concorrenza inesistente per evitarne una reale.
L’esterno di casa Séchard era in carattere con la grande avarizia che regnava all’interno, dove il vecchio Orso non aveva mai fatto alcuna riparazione. La pioggia, il sole, le intemperie di tutte le stagioni avevano finito per far rassomigliare a un vecchio tronco d’albero la porta del corridoio, solcata com’era da innumerevoli fenditure ineguali. La facciata, tirata su malamente con pietre e mattoni mescolati senza alcuna simmetria, sembrava cedere sotto il peso d’un tetto tarlato, ricoperto da quelle tegole concave che nel mezzogiorno della Francia si impiegano per le coperture. La vetrata opaca era completata da quelle enormi persiane, sostenute da grosse traverse, che il clima caldo di quelle regioni esige. Sarebbe stato difficile trovare in tutta Angoulême una casa più screpolata di quella, che ormai si reggeva solo per la forza del cemento. Immaginate quello stabilimento luminoso alle due estremità, buio al centro, le pareti coperte di manifesti e annerite in basso dagli operai che vi si strofinavano contro da trent’anni, con l’apparato di corde tese sotto il soffitto, le pile di carta, i vecchi torchi, i cumuli di pietre per pressare la carta bagnata, le file di casse, e sul fondo le due gabbie nelle quali, ciascuno per suo conto, stavano il padrone e il proto; comprenderete allora la vita dei due amici.
Nel 1821, ai primi di maggio, Davide e Luciano si trovavano accanto alla vetrata del cortile nel momento in cui, verso le due, i loro quattro o cinque operai lasciavano lo stabilimento per andare a mangiare. Quando il padrone vide l’apprendista chiudere la porta a sonaglio che dava sulla strada, condusse Luciano nel cortile, come se l’odore della carta, degli inchiostri, dei torchi e del legno vecchio gli fosse insopportabile. Entrambi si sedettero sotto un pergolato, di dove potevano vedere chiunque entrasse nella stamperia. I raggi del sole che giocavano fra i pampini sfiorarono i due poeti circondandoli quasi con un’aureola. Il contrasto prodotto dall’accostamento di quei due caratteri e di quelle due figure apparve in quel punto così vivo che avrebbe sedotto il pennello d’un grande pittore. Davide aveva le fattezze di coloro che sono destinati dalla natura a grandi lotte, palesi o segrete. L’ampio torace e le spalle forti armonizzavano con la vigoria di tutte le sue forme. Il viso, di carnagione scura, era colorito, pieno, sostenuto da un collo robusto, incorniciato da una folta foresta di capelli neri; a prima vista faceva pensare al viso di uno di quei canonici cantati da Boileau; ma un secondo esame rivelava nelle pieghe delle labbra carnose, nella fossetta del mento, nella forma squadrata del naso, solcato da una schiacciatura irregolare, ma soprattutto negli occhi, il fuoco irresistibile di un unico amore, l’acume del pensatore, l’ardente malinconia di uno spirito che poteva abbracciare le due estremità dell’orizzonte, penetrandone tutte le sinuosità, e per il quale i godimenti puramente ideali sottoposti ad una chiara analisi duravano poco. Se si scorgevano su quel volto i lampi del genio che spicca il volo, vi si vedevano anche le ceneri del vulcano spento; la speranza vi si estingueva in una profonda consapevolezza della inferiorità in cui la nascita oscura e la mancanza di ricchezze mantengono tanti spiriti superiori. Accanto al povero stampatore, a volte nauseato del proprio stato, pur così vicino all’intelligenza, accanto a quel Sileno così pesantemente ripiegato su se stesso che beveva a grandi sorsi dalla coppa della scienza e della poesia, ubriacandosi per dimenticare l’infelicità della vita di provincia, Luciano aveva assunto la posa graziosa ideata dagli scultori per il Bacco indiano. Il suo volto aveva i tratti della bellezza antica: una fronte e un naso greci, il candore vellutato proprio delle donne, gli occhi neri, tanto era cupo il loro azzurro, occhi pieni d’amore, nei quali la freschezza del bianco poteva gareggiare con quella di un bambino. Quei begli occhi erano sormontati da sopracciglia che sembravano disegnate con un pennello cinese e orlati da lunghe ciglia castane. Sulle gote brillava una peluria serica di un colore che si accordava con quello della capigliatura bionda naturalmente ondulata. Le tempie d’un bianco dorato erano di una soavità divina. Una nobiltà incomparabile era scolpita nel mento corto e dolcemente rialzato. Il sorriso degli angeli tristi errava sulle sue labbra di corallo messe in risalto da una bella chiostra di denti. Aveva le mani dell’uomo ben nato, mani eleganti, ai cui cenni gli uomini obbediscono e che le donne amano baciare. Luciano era snello e di statura media. Nel vedere i suoi piedi, un uomo sarebbe stato tentato di prenderlo per una giovinetta travestita, tanto più in quanto, come la maggior parte degli uomini sottili, per non dire astuti, egli aveva le anche conformate come quelle di una donna. Questo segno, raramente ingannatore, era veritiero per quel che riguardava Luciano, il quale, quando analizzava le condizioni attuali della società, era portato spesso, dal suo spirito irrequieto, verso quella deformazione tipica dei diplomatici i quali credono che il successo giustifichi tutti i mezzi, per quanto vergognosi siano. Una delle disgrazie cui sono soggette le grandi intelligenze è quella di abbracciare necessariamente tutto, i vizi come le virtù.
Tanto più i due giovani giudicavano la società dall’alto in quanto si trovavano in basso: gli uomini misconosciuti si vendicano dell’umiltà della loro condizione con l’ampiezza del loro colpo d’occhio. Ma la loro disperazione era anche più amara, perché in tal modo si avviavano più rapidamente là dove li portava il loro vero destino. Luciano aveva letto molto, confrontato molto; Davide aveva pensato molto, meditato molto. Malgrado l’apparenza di una salute robusta e campagnola, lo stampatore era un uomo malinconico e cagionevole, dubitava di se stesso; invece Luciano, dotato di uno spirito intraprendente ma volubile, possedeva un’audacia che non si accordava con le fattezze morbide, quasi languide, piene di grazia femminile. Luciano possedeva al massimo grado il carattere guascone, ardito, coraggioso, avventuroso, che esagera il bene e sminuisce il male, che non retrocede davanti a una malefatta se vi vede un utile, e che non si cura del vizio se gli può servire da predellino. Queste attitudini ambiziose erano allora represse dalle belle illusioni della giovinezza, dall’ardore che portava il giovane a tentare quei nobili mezzi che gli uomini desiderosi di gloria tentano prima di ogni altro. Per ora egli era alle prese solo con i suoi desideri e non con le difficoltà della vita, con la propria forza e non con la vigliaccheria degli uomini, che è un fatale esempio per i caratteri deboli. Sedotto dallo spirito brillante di Luciano, Davide l’ammirava, pur correggendone gli errori verso i quali lo sospingeva la sua impetuosità francese. Quell’uomo giusto aveva un carattere timido che stonava con la sua forte costituzione, ma non gli mancava la tenacia degli uomini del Nord. Se scorgeva le difficoltà, si riprometteva di vincerle senza scoraggiarsi; e, se aveva la fermezza di una virtù veramente apostolica, la temperava col garbo di una inesauribile indulgenza. In questa amicizia già vecchia, uno dei due amava con idolatria, ed era Davide. Perciò Luciano comandava come la donna che sa di essere amata. Davide obbediva con piacere. La bellezza fisica dell’amico comportava una superiorità ch’egli accettava perché sapeva di essere massiccio e comune.
«Al bove l’agricoltura paziente, all’uccello la vita spensierata,» si diceva lo stampatore. «Io sarò il bove e Luciano l’aquila.»
Da circa tre anni, i due amici avevano dunque fuso i loro destini per i quali intravedevano un brillante futuro. Leggevano le grandi opere che dopo la pace apparvero sull’orizzonte letterario e scientifico, le opere di Schiller, di Goethe, di lord Byron, di Walter Scott, di Jean Paul, di Berzélius, di Davy, di Cuvier, di Lamartine, ecc. Si riscaldavano a questa fiamma, tentavano a loro volta opere che abortivano o che venivano prese, lasciate e riprese con ardore. Lavoravano continuamente senza fiaccare le inestinguibili forze della giovinezza. Tutti e due poveri, ma divorati dall’amore per l’arte e per la scienza, dimenticavano la miseria presente e si dedicavano a gettare le fondamenta della loro fama.
«Luciano, sai che cosa ho ricevuto or ora da Parigi?» disse lo stampatore estraendo dalla tasca un volumetto in diciottesimo. «Ascolta!»
Davide lesse, come sanno leggere i poeti, l’idillio di Andrea de Chénier intitolato Neera, poi quello del Giovane Malato, poi l’elegia sul suicidio, quella alla maniera antica, e i due ultimi giambi.
«Ecco chi è Andrea de Chénier!» esclamò Luciano a più riprese. «È incredibile,» ripeté per la terza volta quando Davide, troppo emozionato per continuare, gli lasciò prendere il volume.
«Un poeta ritrovato da un poeta!» disse vedendo la firma della prefazione.
«Dopo aver scritto questo volume,» riprese Davide, «Chénier credeva di non aver fatto nulla che fosse degno di essere pubblicato.»
Luciano lesse a sua volta l’epico brano del Cieco e diverse elegie. Quando gli capitò sotto gli occhi il frammento: «Se costoro non hanno fortuna, allora esiste la fortuna sulla terra?» baciò il libro, e i due amici piansero, perché tutti e due amavano perdutamente. I pampini si erano accesi di mille colori, i vecchi muri della casa, fessi, ammaccati, attraversati da ignobili crepe irregolari, apparivano ricoperti di scanalature, di bugnature, di bassorilievi e d’innumerevoli capolavori di non si sa quale architettura creata dalle mani di una fata. La Fantasia aveva cosparso di fiori e rubini il piccolo cortile scuro. La Camilla di Andrea Chénier era divenuta per Davide la sua Eva adorata, e per Luciano una gran dama che egli corteggiava. La poesia aveva scosso i panni del suo abito stellato sullo stabilimento dove si dimenavano le Scimmie e gli Orsi della tipografia. Suonarono le cinque, ma i due amici non sentivano né fame né sete; la vita era per loro un sogno d’oro, essi avevano tutti i tesori della terra ai loro piedi. Scorgevano quell’angolo di orizzonte bluastro che la Speranza mostra con un dito agli uomini dalla vita burrascosa, dicendo loro con voce di sirena: “Andate, volate, attraverso quel varco d’oro, d’argento o d’azzurro sfuggirete alla sventura.» In quel momento un apprendista chiamato Cérizet, un ragazzino di Parigi che Davide aveva fatto venire ad Angoulême, aprì la porta a vetri dello stabilimento e indicò i due amici a uno sconosciuto che avanzò verso di loro salutandoli.
«Signore,» disse a Davide estraendo dalla tasca un enorme quaderno, «ho qui una memoria che vorrei far stampare. Sapreste dirmi quanto verrà a costare?»
«Signore, noi non stampiamo manoscritti di questa mole,» rispose Davide senza guardare il quaderno, «provate dai signori Cointet.»
«Abbiamo però un carattere molto bello che sarebbe adatto,» intervenne Luciano prendendo il manoscritto. «Dovreste avere la cortesia di ripassare domani e di lasciarci il testo per valutare le spese della stampa.»
«È forse col signor Luciano Chardon che ho l’onore…?»
«Sì, signore,» rispose il proto.
«Sono lieto, signore,» disse l’autore, «di aver potuto conoscere un giovane poeta cui è riservato un così bel destino. Sono stato indirizzato qui dalla signora de Bargeton.»
Nell’udire quel nome, Luciano arrossì e balbettò qualche parola di riconoscenza per l’interesse dimostrato dalla signora de Bargeton. Davide notò il rossore e l’imbarazzo dell’amico, e lasciò che sostenesse la conversazione con il gentiluomo di campagna, autore di una memoria sulla coltura dei bachi da seta, che la vanità gli suggeriva di pubblicare perché fosse letta dai suoi colleghi della Società d’agricoltura.
«Ebbene, Luciano,» disse Davide quando il gentiluomo se ne fu andato, «ami forse la signora de Bargeton?»
«Perdutamente.»
«Ma i pregiudizi vi allontanano più che se foste lei a Pechino e tu in Groenlandia.»
«La volontà di due amanti trionfa su tutto,» disse Luciano abbassando gli occhi.
«Ci dimenticherai,» rispose il timido innamorato della bella Eva.
«Può darsi, invece, che io ti abbia sacrificato la mia amata,» gridò Luciano.
«Che vuoi dire?»
«Malgrado il mio amore, malgrado i diversi interessi che mi spingono a frequentare assiduamente la sua casa, le ho detto che non vi tornerò mai più se non vi sarà ricevuto un uomo il cui talento è superiore al mio, il cui avvenire sarà luminoso: Davide Séchard, mio fratello, mio amico. Troverò una risposta a casa. E malgrado tutta la nobiltà sia invitata questa sera per sentirmi leggere dei versi, se la risposta è negativa, non metterò mai più piede in casa della signora de Bargeton.»
Davide strinse con forza la mano di Luciano, dopo esser si asciugato gli occhi. Suonarono le sei.
«Eva sarà in pensiero, addio,» disse bruscamente Luciano.
Se ne andò, lasciando Davide in preda a un’emozione di quelle che si provano con tanta pienezza solo a quell’età, soprattutto nella situazione in cui si trovavano i due giovani cigni ai quali la vita di provincia non aveva ancora tarpato le ali.
«Cuor d’oro!» esclamò Davide accompagnando con lo sguardo Luciano che attraversava lo stabilimento.
Luciano scese all’Houmeau passando per la bella passeggiata di Beaulieu, la rue du Minage e la porta Saint-Pierre. Se è vero che quella era la via più lunga, è anche vero che la casa della signora de Bargeton si trovava su quella strada. Il piacere che Luciano provava nel passare sotto le finestre della signora, anche se costei non lo sapeva, era tale che da due mesi, per tornare all’Houmeau, non passava più dalla porta Palet.
Arrivato sotto gli alberi di Beaulieu, contemplò la distanza che separava Angoulême dall’Houmeau. Le consuetudini del paese avevano innalzato barriere morali ben più difficili da superare delle rampe dalle quali scendeva Luciano. Il giovane ambizioso, che si era appena introdotto in casa Bargeton gettando la gloria come un ponte volante tra la città e il sobborgo, era inquieto circa la decisione della donna amata, come un favorito che teme di cadere in disgrazia dopo aver cercato di estendere il suo potere. Queste parole devono sembrare oscure a coloro che non hanno ancora osservato le consuetudini proprie delle città divise in città alta e città bassa; a maggior ragione è necessario addentrarsi qui in alcune spiegazioni su Angoulême, in quanto queste spiegazioni faranno comprendere la figura della signora de Bargeton, uno dei personaggi più importanti di questa storia.

 

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